01 marzo 2008

Il «nuovo» che avanza e le donne in politica

C’è idea bizzarra del «nuovo» che avanza in politica. Ed è il «nuovo anagrafico».
Basta una faccia nuova ad incarnare una svolta generazionale ? Sembrerebbe di sì a giudicare dal quel che avviene in queste settimane. E poco importa se si tratta di candidati sottratti ai loro impegni professionali e calati in questo o in quel collegio ad interpretare un rinnovamento posticcio, dunque finto perché imposto «a tavolino».
Un’idea del «nuovo» - paradossalmente - imposta dal vecchio, e cioè da chi, in politica, c’è da trent’anni o giù di lì. Colpa, in gran parte, dello sconquassamento dei partiti tradizionali, mutati non solo nelle strutture ma anche nella loro essenza, non più laboratori di idee e progetti, pensatoi o luoghi di confronti, ma semplici strumenti di raggiungimento e gestione del potere, impedendo quel che avveniva un tempo, e cioè una naturale selezione della classe politica e dirigente. Il Pci ne fu l’esempio più straordinario, consentendo anche ad anonimi militanti di paese, di costruire percorsi politici dal basso.
Insomma, «a ridatece» De Mita piuttosto che fighetti da soap opera e femmine «fatali» buone solo per le copertine dei giornali.

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Nel 2005 l’onorevole Pippo Gianni (deputato uscente all’Ars), quando sedeva tra i banchi di Montecitorio, durante un dibattito d’aula sulle quote rosa, in un rigurgito di misoginìa, così sbottò: «Queste donne ci hanno scassato la minchia», a significare, con azzardata crudezza di parole, che non si poteva imporre, per legge, la presenza delle donne nelle liste, e che occorreva affidarsi al corso naturale delle cose.
Se ne riparla adesso - di donne - che si devono compilare le liste elettorali. E lo si fa con lo stesso approccio che gli ambientalisti hanno per la tutela delle specie a rischio. Penso che per prime le donne rifiutino questa meccanica selezione e la supposta specificità di «ruolo» che, in quanto tali, si vorrebbe loro attribuire.
Noi, che di Gianni condividemmo allora come oggi il senso di quelle parole, preferiremmo che, invece delle cooptazioni, si procedesse per selezione naturale. Pur rimanendo convinti – come scriveva Mark Twain che «l'umanità senza la donna sarebbe scarsa. Terribilmente scarsa».

Nino Ippolito

23 gennaio 2008

Lui: «Questo è sesso». Lei: «Questo è amore». Tu chiamale, se vuoi, incomprensioni

Secondo la psicoterapeuta Gianna Schelotto (autrice di fortunati saggi quali Matti per sbaglio, Il sesso, probabilmente e il recente E io tra di voi - Le amanti e le loro illusioni), la diversa concezione del sesso e dell'amore da parte di uomini e donne risalirebbe a quel periodo della vita in cui si è da poco usciti dall'infanzia, ma non si è ancora entrati nell'adolescenza. E narra, la Schelotto, per spiegarsi, un aneddoto illuminante. Ci sono due bambini, un maschietto e una femminuccia, i quali, giocando, ad un certo punto cominciano a rotolarsi, abbracciati, nell'erba. Entrambi provano piacere, con una differenza, sostanziale. Nel bambino quel particolare piacere trova un immediato riscontro nell'erezione, per cui egli è portato a pensare: «Questo è sesso». Nella bambina, invece, il piacere non si estrinseca in alcuna reazione fisica, rimane, per così dire, qualcosa di intimo, per cui ella penserà: «Questo è amore».
Se le cose stanno come sostiene la Schelotto, è una bella fregatura per entrambi. Giacché tale diversa interpretazione dello stesso fatto (il piacere del rotolarsi abbracciati), porterà i due a mettere in atto comportamenti che non andranno affatto nella stessa direzione. Per cui l'uno, non trovando riscontro, nell'altra, alle proprie azioni, si chiederà: «Ma perché non mi capisce?». E l'altra, che parimenti non riceverà conferme al proprio agire, allo stesso modo si domanderà: «Ma perché non mi capisce?». Irrimediabilmente destinati a non comprendersi, a fraintendersi, per il resto della loro vita.
Da tutto ciò deriverebbe l'assunto secondo il quale gli uomini sarebbero portati a dare amore per ottenere sesso, laddove le donne elargirebbero sesso per ricevere in cambio amore.
Ma sarà davvero così? O, quantomeno, sarà ancora così? Davvero le donne per andare a letto con un uomo devono esserne innamorate? E davvero gli uomini, al primo albeggiare, pensano solo a svignarsela mentre la donna con cui hanno passato la notte ancora dorme? Perché l'impressione è che sempre più donne, perfettamente coscienti del proprio ruolo sociale, danno sesso per ricevere sesso, mentre sempre più uomini, spaventati, insicuri e rintronati, si ritrovano a dare amore per ricevere amore.
Anche questo è un segno dei tempi che cambiano. D'altronde, ora che non esistono più le mezze stagioni, ci si può stupire?

09 gennaio 2008

Il Caso Contrada: la vicenda umana e quella giudiziaria tra odio, vendetta e memoria

Quella di Bruno Contrada è una vicenda umana ancor prima che giudiziaria. Ed è forse da qui, da questa elementare premessa, che si dovrebbe partire per comprendere come ciò che sta accadendo all’ex Dirigente della Polizia di Stato, prescindendo dunque dal merito delle vicende processuali e dal giudicato della sentenza, è certamente una forma di inaudito accanimento che lascia quanto meno perplessi.
Le gravi condizioni di salute, acclarate da diverse e motivate certificazioni sanitarie, ne fanno – mi si perdoni il crudo linguaggio – un moribondo. La permanenza in carcere – dicono le perizie – è non solo incompatibile con le sue condizioni di salute, ma le aggraverebbe. La legge contempla il differimento dell’esecuzione della pena, ma il magistrato competente – ed è notizia di poche ore fa - ha già respinto una specifica richiesta del legale di Contrada, l’avvocato Giuseppe Lipera.
L’impressione che se ne ricava, ancora con maggiore evidenza – nell’attesa comunque di leggere le motivazioni a supporto di questo sorprendente diniego - è di una sfida «al di sopra» dello stesso imputato, in cui il problema da capire e risolvere non sono le sue condizioni di salute, ma ciò che rappresenta Contrada nell’immaginario collettivo: un colluso e un traditore dello Stato.
Il moribondo, dunque, rimane in carcere, subendo, nei fatti, la condanna ad una lenta agonia. E poco importa se «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità». Almeno così sta scritto, con disarmante semplicità, all’articolo 27 della nostra Costituzione, indipendentemente, va da sé, dal reato per il quale si è stati condannati.
Lo Stato mostra così di sé un’immagine di crudele indifferenza, di meccanica fatalità, sottraendo non solo al buon senso ma ai più elementari principi di civiltà giuridica, la facoltà di togliere la vita.
Ed inquieta che questa fatalità possa essere formalmente sostenuta con il supporto del diritto e delle macchinose malleabilità che, del diritto, è possibile fare anche per dimostrare la «giustezza» di una detenzione che per alcuni tiene dietro le sbarre un «simbolo», e in realtà ha messo ai «ferri» un corpo malato.

Quella di Contrada però è anche una vicenda politica.
Le polemiche imbastite sulla finta richiesta di grazia (Contrada non l’ha mai chiesta) hanno trasformato la valutazione sul differimento della pena in un referendum sulla colpevolezza o meno dell’ex agente del Sisde. In pratica, un secondo processo, una seconda sentenza di condanna.
Giornali e televisioni, molti per pigrizia professionale, alcuni per pilatesco distacco, altri per un meditato calcolo di propaganda, hanno poi trasformato un semplice problema di umanità – e cioè le condizioni di salute di Contrada - in un dilemma: è giusto graziare un condannato per concorso esterno in associazione mafiosa ? E’ giusta tanta «attenzione» per un condannato per reati di mafia ?
Un epilogo prevedibile. In cui tanto sperava la vociante orda di becchini che sembra inseguire Contrada, confidando perfidamente - in un Paese come il nostro in cui il pensiero dell’opinione pubblica, storicamente, passa dal bianco al nero ignorando i toni di grigio – in una poderosa indignazione per indurre la «gente» a dividersi, fatalmente, tra mafia ed antimafia, il male ed il bene. Roba da novelli «ghigliottinatori» la cui lama affilata – peggio dei colpi di lupara - è quella delle invettive, dei risentimenti, dell’odio, dell’ansia di vendetta. La stessa vendetta inseguita come «piacere abietto di una mente abietta» (Giovenale)
E così, per l’ennesima volta, di fronte ad una classe politica diffusamente codarda e opportunista, incapace di sottrarre alla barbarie dei forcaioli il caso umano di un condannato, ancora una volta, all’ombra delle nostre Istituzioni, certa antimafia di mestiere - tale perché perpetua se stessa, nei ruoli politici come in quelli professionali, grazie al clamore (e al «ruolo») che l’antimafia offre nella ribalta mediatica promuovendo carriere e fortune politiche con una formidabile infallibilità che vince plateali inettitudini e notorie mediocrità – in poche ore, nel rituale turbinìo di dichiarazioni e prese di posizione, ha trasformato la vicenda umana in un nuovo processo, un giudizio di massa, una lapidazione collettiva, quasi che, decidere se fare scontare o meno a Contrada la pena in carcere o agli arresti domiciliari, significasse assolverlo o, come pure è stato sostenuto, fare un favore alla mafia.

Le condizioni di salute di Contrada devono essere disgiunte dalla sentenza di condanna. Per comprenderlo non si deve invocare lo Stato di diritto, né la pietà dell’opinione pubblica, ma solo il senso di umanità che pure è contemplato nei dettami della nostra Carta costituzionale. La civiltà di una società si misura anche in momenti come questi.
Qui invece si mischiano, volutamente, odio, vendetta e memoria. Si confonde, deliberatamente, la vicenda umana con quella giudiziaria. Alimentando spropositati furori verbali e perenni divisioni istigate non da una divergenza sull’analisi di merito, ma per autopromuoversi, per esserci, profittando dunque dei moribondi per rafforzare un ruolo, un potere, una nicchia di visibilità nella quale tutti dicono tutto perché è la guerra dei «simboli» e non il caso umano di un imputato. Mostrando un’invadenza sconsiderata, a tal punto - e la parola non deve apparire niente affatto esagerata - da intimidire il Capo dello Stato, il solo, nonostante i deliranti richiami e gli invocati colloqui, che ha il potere di concedere la grazia e commutare le pene.

Proprio in queste ore la Corte di Cassazione ha reso note le motivazioni della condanna. Contro l’ex uomo dei Servizi non ci sarebbe stato alcun complotto. Parole inequivocabili e - tranne che non arrivi una revisione del processo la cui richiesta è stata annunciata dal suo legale - probabilmente definitive. Eppure, a leggere le carte processuali, il dubbio è un tarlo che, in più circostanze, sfida la perentorietà dell’accusa.
Basterebbe, a dire il vero, pensare solo un momento alla sentenza d’appello che, dopo la prima di condanna, ha assolto Contrada «per insussistenza del fatto», per capire come in questa storia non c’è il «nero» da opporre al «bianco», ma tante sfumature di grigio.
Come fanno dei giudici a dire che Contrada è innocente ed altri che è colpevole ?
Tanta arbitraria è l’interpretazione del diritto ?
Tanto malleabile può risultare la sorte di un uomo posto innanzi alla mutabilità di umori, testimonianze, teoremi e pentiti, tale da farlo passare, con un tratto di penna, dal girone dei puri a quello dei collusi ?
Certamente si rimane disorientati nel constatare come un uomo delle Istituzioni sia stato giudicato da altri uomini dello Stato ora colluso ora integerrimo poliziotto.
La sua storia sembra il canovaccio dei «mascariati», dei sospettati.
E in una terra dove l’integralismo giustizialista, quello del «sospetto come anticamera delle verità» (infausto «assioma» partorito, a dispetto delle propagandate grigie «primavere», in tempi bui da Padre Ennio Pintacuda negli anni del suo obnubilamento orlandiano…) arma le fionde di quell’antimafia di mestiere che s’è fatta partito e potere consolidato, basta il «puzzo» dell’ambiguità, di un’incertezza, di un sospetto, per decretare la morte civile di una persona.

Non si può non condividere quanto ha detto l’ex Direttore dell’Unità Peppino Calderola, che ha bollato la canèa giustizialista nei confronti di Contrada come frutto di una «cultura vendicativa e priva di umanità».
E non si può ignorare il monito di un autorevole esponente del riformismo italiano, Emanuele Macaluso quando biasima quanti pensano di combattere la mafia «non con la fermezza dei principi e dell’azione pubblica, ma con la crudeltà statale»
«Giustizia senza misericordia – scriveva Albert Camus - non è molto distante dalla disumanità».
Ma certi magistrati, si sa, rilasciano interviste, frequentano gli studi televisivi, scrivono tanto, ma leggono poco.

Nino Ippolito


Nell’immagine in alto «Le muse inquietanti» (1917) di Giorgio De Chirico (Volos, 10 luglio 1888 – Roma, 20 novembre 1978)

10 dicembre 2007

«Buon Natale!». «A tua sorella!». I forzati degli auguri preconfezionati

«Buon Natale! Buon Natale!» urlava a squarciagola, correndo per le strade della sua città, George Bailey (interpretato da James Stewart), ne La vita è meravigliosa (1947) di Frank Capra.
Tra un paio di settimane è Natale. A ricordarcelo, oltre al calendario, al freddo e all'influenza di stagione, provvede la consueta invasione di melensi spot televisivi e di insipidi sondaggi su regali utili, inutili e riciclati.
Come avviene da qualche anno, assieme al Natale arriverà, puntuale e irritante come un brufolo adolescenziale, la pandemia di sms ed e-mail d'auguri stucchevoli e preconfezionati. Nulla a che vedere con il sano giubilo del mite Bailey.
I cellulari principieranno a rigurgitare messaggini impersonali a qualunque ora del giorno e della notte, spesso inviati da persone che abbiamo incrociato mezza volta, di cui a malapena rammentiamo le fattezze, mentre la nostra casella di posta elettronica finirà intasata dalle scipite e-mail di «professionisti dell'informazione senza forma e senza contenuto» (la felice definizione è del collega Gery Palazzotto).
Un suggerimento pratico. Per inibire il "nemico" che arriva tramite sms si può procedere in questo modo: un paio di giorni prima della festa comandata in questione, scrivere un messaggino con un semplice testo, «Si dispensa dagli auguri», selezionare tutti i numeri in rubrica e inviare. La stessa operazione può essere replicata, tramite e-mail, con i contatti presenti nella rubrica di posta elettronica.
«Intelligenti pauca», dicevano i latini.

24 novembre 2007

Se persino una «fiction» fa paura…

Alla voce «fiction» sull’autorevole Devoto-Oli si legge: «Letteratura amena, narrativa e con accentuato carattere romanzesco, specie in contrapposizione ad altri generi letterari. Nel cinema e nella televisione il termine si usa a proposito di quei film che basano la loro storia su fatti e personaggi di fantasia, in contrapposizione dunque ai documentari». Insomma, in una sola parola: finzione.

In questi giorni, con una superficialità di analisi e giudizio che è disarmante, magistrati, parlamentari di destra e di sinistra, giornalisti, uomini di governo, intellettuali e gente di spettacolo si sono esercitati in un artificioso quanto stucchevole dibattito per discutere se la «fiction» - e quindi la finzione – sul «Capo dei Capi», ovvero su Totò Riina e le sue «gesta» mafiose corrispondano alla realtà e se non suscitino addirittura una sorta di spirito di emulazione in quanti – soprattutto giovani – la guardano acriticamente.

L’ultima di queste analisi, rivelatici, per certi versi, di una irrazionale iconoclastìa per tutto ciò che non abbia i crismi di una certa «antimafiosità» - e nel caso specifico di un lavoro artistico di finzione, per definizione arbitrario e quindi senza vincoli di fedeltà a fatti e verità processuali - l’ha proposta il Pm della Dda di Palermo, Antonio Ingroia che durante un incontro a Potenza organizzato dall'associazione «Libera» ha osservato: «Alcune fiction come “Il capo dei capi'” possono essere dannose perché creano iconografie al contrario dei mafiosi».
Con lo stesso metro di valutazione di «dannosità» e l’identico, disinvolto approccio, solo per fare un esempio, dovremmo vietare film, spettacoli teatrali, libri in cui la violenza viene raccontata e descritta.
E’ come se, volendo fare una provocazione, discutessimo se il «Davide con la testa di Golia» del Caravaggio possa essere dannoso o meno per chi lo osserva….
Non sarebbe meglio, piuttosto che vietarle le «finzioni», restituire il loro originario senso alle parole e preoccuparsi di utilizzarle con la necessaria perizia, piuttosto che confondere, banalmente, la «fiction» con la cronaca, e promuovere la cultura della visione, della lettura, dell’analisi critica ?
Insomma, si scade nel ridicolo se si pretende di appiccicare persino ad una «fiction» l’etichetta o meno di «antimafiosità»
Come scriveva Theodor Wiesengrund Adorno
«La libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta»

Nino Ippolito

Nella foto «Davide con la testa di Golia»
Olio su tavola, cm 90,5x116,5
Custodito al Kunsthistorisches Museum di Vienna

31 ottobre 2007

L'informazione nostrana? Non ci resta che piangere

In questi giorni, sul nostro blog, nell'apposita rubrica battezzata Il muro del pianto, stiamo raccogliendo una sequela di «errori & orrori» della scrittura giornalistica. Qualcuno ci ha, sommessamente, accusati di fare opera di delazione. Peggio, di screditare la categoria. A costoro si può rispondere che la categoria si scredita da sola, mentre l'intento della rubrica è quello di far riflettere: meglio se la riflessione è accompagnata, preceduta o seguita da una risata. Far riflettere ovviamente gli appartenenti alla categoria. E se il nostro profano «muro del pianto» dovesse contribuire a migliorare la qualità di ciò che giornalmente ci capita di leggere, be', allora vorrà dire che a qualcosa sarà servito.
A margine. Sempre in questi giorni, il sondaggio, lanciato sul nostro blog, su quale sia la caratteristica ricorrente nei giornalisti, vede nettamente in testa la sciatteria: dal momento che a votare sono essenzialmente giornalisti (non abbiamo motivo di pensare il contrario), non possiamo che dedurne che la categoria ha una discreta coscienza di quelli che sono i propri limiti. È già qualcosa.

22 ottobre 2007

Accusa e difesa nel giornalismo giudiziario. Il giornalista tra pigrizia e compiacenza

Il giornalismo viene definito, non a torto, il «Quarto Potere» perché al pari di quello legislativo, esecutivo e giudiziario, è in grado di determinare dei cambiamenti nella società, nelle sue strutture sociali, politiche ed economiche.
Cosa succede quando «Quarto Potere» e «Potere Giudiziario» - per usare una esemplificazione - si fondono, agiscono in sintonia e si supportano vicendevolmente ?
La domanda è anche una premessa per meglio specificare il senso del nuovo tema che voglio introdurre, e cioè il rapporto tra accusa e difesa nel giornalismo giudiziario. Tema che costituisce spesso oggetto di dibattito non solo tra gli addetti ai lavori (giornalisti, avvocati, magistrati) ma anche tra i normali cittadini.

Penso di sottolineare una ovvietà se scrivo che questo rapporto è sbilanciato a favore dell’accusa e di come, quindi, sia sostanzialmente degenerato, apparendo il giornalismo giudiziario italiano prono alle procure e agli organi investigativi. Ancor più negli ultimi anni, con la progressiva scomparsa del giornalismo d’inchiesta che ha sottratto ai giornalisti quella capacità di analisi, di verifica, di ricerca e di riscontro che solo un lavoro meticoloso, paziente, scrupoloso può assicurare.

«Sbattere il mostro in prima pagina» è forse la frase che – seppur banalmente - meglio sintetizza la subordinazione del giornalismo giudiziario all’accusa. Ma è , in generale, il vizio tipico del giornalismo pigro: sposare una tesi, trasformare indizi in prova, indicare un colpevole, trasformare le indagini preliminari in condanna, attribuire connotati di «verità fattuale» a ciò che un giudice deve ancora vagliare, giudicare.

Molti giornalisti, sia che scrivano per quotidiani regionali sia che lo facciano per quelli a diffusione nazionale, si sono ridotti a fedeli «portavoce» delle procure e quindi della pubblica accusa.
Non si raccontano i fatti, si preferisce «sposarli»; quelli, ovviamente, già confezionati in una predeterminata prospettazione che, rappresentando solo una parte, non potrà essere in quel momento – e dunque prima di una sentenza – la verità.
Non si va mai oltre l’ufficialità delle fonti investigative. Anzi, spesso si prendono per buone acriticamente, quasi godessero di una sorta di immunità allo scrupolo, alla verifica, al riscontro, mentre le cronache di questi mesi ci dicono che anche le indagini si possono deviare, pilotare, indirizzare o rivoltare come un calzino con esiti diversi. O che anche le indagini possono essere viziate da errori, imperizia, malafede, travisamenti, equivoci.
«Il dubbio è scomodo – diceva Voltaire -
ma solo gli imbecilli non ne hanno»

I cronisti giudiziari si limitano spesso ad un lavoro da copisti, riprendendo dettagliati comunicati stampa pensati a bella posta per «il giornalismo del copia e incolla», e si abdica persino al ruolo di semplici cronisti perché non è il «fatto» che si racconta, ma le sue suggestioni o la rappresentazione che del fatto viene fornita.

La difesa è ridotta ad orpello formale. E per giunta invisa alla categoria perché per avere «udienza» in fondo pagina o - bene che vada - in uno stelloncino di spalla, deve farsi spazio a colpi di diffide.

Non deve sorprendere allora se l’opinione pubblica si dica «stupita» ogni qual volta apprende di «clamorose assoluzioni», ignorando come la stessa opinione pubblica abbia il più delle volte conosciuto sui giornali solo le prospettazioni dell’accusa e mai gli argomenti della difesa. E’ come se per un anno i giornali scrivessero che Tizio è un truffatore della peggiore risma e poi un Giudice, a fine processo, ci dice che in realtà è uno stinco di santo.

In un sistema così sbilanciato il rapporto tra giornalisti e fonti investigative (Carabinieri, Polizia, Magistrati, Guardia di Finanza) si nutre spesso di compiacenze e – purtroppo - anche di condizionamenti più o meno consapevoli.
Si assiste, non di rado, a plateali baratti: il dettaglio di una inchiesta, una rivelazione investigativa o un segreto ammantato di «indiscrezione» in cambio di visibilità mediatiche, di risalto a tesi accusatorie con effetti dirompenti nell’opinione pubblica per cui un processo prima che nelle aule dei tribunali viene celebrato sui giornali. E’ una regola non scritta. E’ una prassi elevata a sistema. Non c’è, solitamente, una strategia studiata a tavolino. E’ un andazzo «naturale».
Ciò non toglie che ci sia anche la teatralità cercata, studiata. Accade quando occorre suscitare clamore. Quasi che l’esito di un’indagine si esaurisca nello spettacolo mediatico di una retata in diretta e non – come giusto che sia – in un processo, e cioè in un confronto tra accusa e difesa. Basti pensare alle «fiction» che accompagnano certe inchieste: la «soffiata» alle televisioni, le troupe al seguito delle «gazzelle», militari in posa, ciak, si gira.

Perchè questo accade ?
Il rapporto tra accusa e difesa, al di là delle modifiche all’articolo 111 della nostra Costituzione, rimane sbilanciato a favore della prima già nel processo. E’ una constatazione acclarata da insigni giuristi. Il giornalismo giudiziario, per pigrizia e per compiacenza, riflette questo sbilanciamento.

Nel mezzo intravedo motivi, diciamo così, più elementari C’è un problema di conoscenza, di formazione, di cultura giuridica. Non sempre chi si occupa di cronaca giudiziaria ha gli strumenti per comprendere le indagini, il loro iter, il processo.
Si ritiene, a torto, che l’esperienza possa colmare il vuoto di conoscenza. Ma non è così e non potrebbe essere altrimenti nel giornalismo giudiziario dove il trattamento della «materia» presuppone una conoscenza dettagliata di codici e procedure.
Non di rado - per segnalare le situazioni più evidenti - leggiamo di pubblici ministeri indicati come «giudici», ignorando, in questo caso, la distinzione tra magistratura requirente e quella giudicante; o di «avvisi di garanzia» associati ormai con naturale ritualità ad un’idea di «colpevolezza», dove la sola garanzia - come ricordava pochi giorni fa sulle colonne del «Corriere della Sera» il magistrato Felice Casson commentando l’indagine a carico del ministro di Grazia e Giustizia Clemente Mastella – è che «l’avviso è un guaio per l' indagato e non un atto a sua tutela».

Ci sono, nel mezzo, i casi di vera e propria subordinazione psicologica. Di giornalisti cioè, così succubi e per questo così «malleabili», che instaurano con magistrati, carabinieri, commissari, un rapporto professionale di sudditanza. Parlo di giornalisti che scalpitano per una cena con un Pm, che inseguono un rapporto privilegiato, e che pure ricercano in questa confidenza una sorta di accreditamento, un riconoscimento di ruolo che, al contrario, l’esercizio concreto dell’indipendenza e dell’autonomia professionale, non consentirebbe loro di avere. Di solito accade ai mediocri, e cioè a quelli che - per scelta di «devozione» - non proverebbero mai, pur avendone le ragioni, a criticare un Pm, un maresciallo dei Carabinieri, un Commissario di Polizia. A dubitare, per ipotesi, anche del loro lavoro.

Vero è che non sempre la «difesa» è incline a difendersi anche sui giornali, ma questo atteggiamento nasce proprio dalla consapevolezza che, lo sbilanciamento sui giornali tra accusa e difesa, è una lotta impari. Tanto è radicata la distorsione.

Ciò che preoccupa – e concludo - non è lo stato delle cose, quanto l’incapacità della categoria di prendere coscienza del problema e affrontarlo adeguatamente.
Garantire la parità tra accusa e difesa anche sui giornali significa garantire il contraddittorio.
La garanzia del contraddittorio è il principio cardine di un giornalismo che, oltre che imparziale, aspira ad essere veramente autorevole e per questo credibile.

Saluti

Nino Ippolito

Nella foto a corredo del post una tela del pittore francese Louis-Simon Tiersonnier dal titolo «Allegoria della Giustizia»
(Beauvais 1713 o 1718 - Parigi 1773)

09 ottobre 2007

Io, in Sicilia cronista da «5 euro a pezzo». A Londra, da salumara a manager in 6 mesi


Egregi «tenutari»,
vi scrivo dal mio nuovo ufficio londinese, a pochi passi da Victoria Station.
Da quando mi sono trasferita, per ovvie ragioni ho sospeso (o forse lasciato ? abbandonato, temporaneamente messo da parte ? non saprei...) la professione che ci ha accomunato per alcuni anni. Potete immaginare quale immane sforzo mi sia costato dover rinunciare al mio contratto di «collaborazione coordinata e continuativa», ai 5 euro scarsi per articolo, alle misere lotte intestine e alle serate passate a rimediare a «buchi» e incidenti stradali per approdare ad una realtà del tutto nuova. Una realtà fatta di riconoscimento dei meriti (ricordate la «meritocrazia» che negli ultimi anni era diventata una cosa aliena, tanto volevano farci credere fosse «una cosa di destra»...) di opportunità, di valorizzazione delle risorse umane. Una realtà dove, se lavori tanto e bene - poco importa se lavi i piatti o servi pizze - in sei mesi puoi diventare qualunque altra cosa tu voglia.
Io ho riscoperto la categoria della possibilità.
Mi spiego meglio. Quanti di voi, pur essendo ottime penne e teste brillanti, possono sperare di ottenere nei prossimi mesi una promozione a redattore, caporedattore o caposervizio ?
La risposta la sappiamo bene tutti quanti: ci mettereste tutti la firma ad essere per lo meno «assunti», poco importa con che qualifica. E per questo sareste anche disposti ad aspettare uno, due o cinque anni. Non è così ?
Immagino di sì. E non vi biasimo. Perche' amate questa professione e, forse piu' di me, siete disposti ad accettare la mortificazione di alcuni diritti, pur di esercitare questo splendido mestiere. Davvero vi ammiro per questo spirito di abnegazione. Io ho mollato questa realtà di contratti «co.co.co», di redattori affetti da disturbi lessicali, di caposervizi proni e servili al potere di turno (e a quello di sempre, ovviamente !) per intraprendere una nuova sfida. E Londra si è rivelata la realtà giusta con cui misurarmi. Immagino sorriderete - qualcuno storcerà il naso - se vi racconto che, appena arrivata a Londra, per le prime settimane ho lavorato in un negozio di formaggi e salumi (e vi assicuro che affettare il prosciutto crudo può essere più difficile che scrivere un pezzo di giudiziaria: almeno in termini di incidenza del rischio di brusca riduzione del numero di dita) Eh già, la Correra se n’è andata a fare la salumaia….
«Era ora», dirà qualcuno….O forse no.
Il punto è che nel giro di un mese ho trovato un altro lavoro senza dover ricorrere ad «amicizie, conoscenze, raccomandazioni»: solo i miei titoli, le mie capacità, il mio curriculum. E la mia testa.
Già, la mia testa dura.
Vivo qui a Londra da otto mesi: ho fatto la salumara, la cameriera e adesso ho appena ricevuto la promozione ad «Assistant Manager» in una grossa compagnia alberghiera e lavoro nel più grande dei cinque hotel che la compagnia possiede qui a Londra, il Park Plaza Victoria Hotel. Contratto a tempo indeterminato sin dal primo mese, possibilità di carriera e formazione. Per dirne una: la compagnia ha selezionato solo sei tra tutti i dipendenti di Londra (circa un migliaio) ai quali si e' offerta di pagare le tasse per il corso NVQ, (un corso di laurea in Management). Io sono tra quei sei.
Cosa farò domani non lo so. Di certo non rinuncerò al mio nuovo stipendio (soldi sicuri, non come quelli che ancora aspetto da certi disonorevoli editori locali…) e al riconoscimento dei meriti per tornare a lavorare senza garanzie, sottopagata, con un contratto di merda, il tutto per fare arricchire l’editore di turno. E che non si trattino argomenti scomodi, per carita ! Sennò al direttore arrivano le telefonate del presidente, senatore, dell'onorevole….
Sarà un piacere scambiare opinioni serie e semiserie con tutti voi.
Un abbraccio
Al.Co.
(Era da tanto che non mi firmavo così !)

30 settembre 2007

Le controindicazioni della comunicazione tecnologica


Il campione australiano di cricket Shane Warne ha erroneamente inviato alla moglie un sms che doveva, invece, indirizzare all'amante. Risultato: la signora Warne ha piantato in tronco l'adultero "canguro", al quale non è rimasto altro da fare che maledire la propria dabbenaggine e rimpiangere il tempo in cui i messaggi viaggiavano con i piccioni. Episodi come quello di cui è stato infelice protagonista Warne si verificano quotidianamente, complice la pervasività di strumenti di comunicazione sempre più tecnologizzati e il loro uso spesso frettoloso. La situazione tipica? L'e-mail inviata alla persona sbagliata...