31 ottobre 2007

L'informazione nostrana? Non ci resta che piangere

In questi giorni, sul nostro blog, nell'apposita rubrica battezzata Il muro del pianto, stiamo raccogliendo una sequela di «errori & orrori» della scrittura giornalistica. Qualcuno ci ha, sommessamente, accusati di fare opera di delazione. Peggio, di screditare la categoria. A costoro si può rispondere che la categoria si scredita da sola, mentre l'intento della rubrica è quello di far riflettere: meglio se la riflessione è accompagnata, preceduta o seguita da una risata. Far riflettere ovviamente gli appartenenti alla categoria. E se il nostro profano «muro del pianto» dovesse contribuire a migliorare la qualità di ciò che giornalmente ci capita di leggere, be', allora vorrà dire che a qualcosa sarà servito.
A margine. Sempre in questi giorni, il sondaggio, lanciato sul nostro blog, su quale sia la caratteristica ricorrente nei giornalisti, vede nettamente in testa la sciatteria: dal momento che a votare sono essenzialmente giornalisti (non abbiamo motivo di pensare il contrario), non possiamo che dedurne che la categoria ha una discreta coscienza di quelli che sono i propri limiti. È già qualcosa.

4 commenti:

Anonimo ha detto...

Quando ho cominciato a scrivere io, c’era il correttore di bozze. Poi, in tipografia, nei giornali migliori, stazionavano altri due signori, un giornalista ed un “capo operaio” chiamato “proto”. Questi due, avevano il compito di correggere gli errori sfuggiti ai piani alti, in redazione, al correttore di bozze. Tra i giornalisti della tipografia, ricordo che l’Espresso mandava spesso un tizio chiamato Sergio Saviane (l’inventore del termine “mezzobusto”, tanto per capirci). Questo perché allora non si correggevano solo gli errori ortografici o di disattenzione, ma anche quelli sintattici e persino, a volte, di stile linguistico. Si capisce che a correggere Giorgio Bocca non poteva certo essere il primo venuto!
Oggi ho spesso l’impressione che a “sistemare” molte bozze sia solo il correttore automatico di “word”, il quale cambia “Bagarella” in “Cagarella” e non se ne accorge nessuno.
E’ come i traduttori automatici on line, che “Bill Clinton” lo traducono in “Fattura Clinton”.
Che farci? Si tratta del (spero) momentaneo limite della computerizzazione . Ma forse è il (colpevole) limite di chi, pur di risparmiare sugli stipendi, non assume esseri umani qualificati per fare il lavoro.
Tu mi dirai, caro Vincenzo, che se i giornalisti lo sanno, perché non si rileggono il pezzo e se lo aggiustano da soli prima di inviarlo? Non lo so.
Ho però paura, che molti colleghi se anche rileggessero mille volte quello che hanno scritto, non saprebbero aggiustarlo. E di ciò ringrazio il Cielo.
Semplicemente perché è così, che molti giornalisti sono considerati oggettivamente bravi, ed altri oggettivamente “scecchi”.

Nino Tilotta

P.S. : anche io ho commesso l’errore di non rileggere questo post!! :-))
n.t.

Anonimo ha detto...

Io penso che non rileggiamo i pezzi per la fretta e la mancanza di pazienza e sopratutto perchè se una volta si scriveva un pezzo e poi pochi altri brevi, oggi bisogna scriverne 3-4 e tutti di una certa fattezza.
Oggi le redazioni sono composte da pochissimi giornalisti che scrivono più pezzi. In alcuni giornali vengono usati degli pseudonimi per non far apparire che è lo stesso giornalista che scrive più pezzi. Nelle televisioni e nelle radio dove l'errore grammaticale invece non si legge ma si sente è un problema diverso: parlare è spesso più difficile che scrivere perchè sopravviene la parola corrente, il gergo popolare con cui si discute fuori con la gente e con gli amici.
Anche a me il Wolrd di Windows faceva delle fregature scrivendomi imperterrito Partitico anzicchè Partinico e tutto ciò che volete. E' anche vero però che bisogna dirsi chiara una cosa: continuando su questa linea i giornalisti saranno una razza in via di estinzione. Oggi sono la metà di queli che c'erano 10 anni fà. Oltre a vivere una condizione economica impossibile in un ambiente ancora più impossibile arrivano anche le mortificazioni letterarie e grammaticali dovute più a inerzia che a impreparazione.
Non credo che un giornalista non sia in grado di correggersi se si rileggesse e se ne avesse il tempo per farlo.
Guardate io ve lo dico: sono in Sicilia da 9 anni dopo esserne stato via per 12 e ho trovato e vivo una situazione che dire disastrosa è un eufemismo. E anno dopo anno le cose peggiorano. Non vi siete accorti come l'età media delle redazioni è decisamente alta rispetto al passato?

Una buona domenica



Antonio Pignatiello

Unknown ha detto...

Invito AP, che come me ha collaborato a L’Ora e ad Avvenimenti, a leggere il mio commento sul Post di Al.Co. in questo stesso Blog: “Io, in Sicilia cronista da «5 euro a pezzo».”, e avrà più chiaro il mio pensiero.

Dovrà però probabilmente convenire con me che il giornalismo scritto e quello radiotelevisivo stanno distanti tra essi quanto un volpino italiano” ad un “akita inu”: ambedue sono classificati "spitz”, ma il primo pesa cinque chili, l’altro cinquanta.
Se scrivi un pezzo lo rileggi, limi le sbavature, sposti una virgola , cambi una parola e riesci ad essere persino spiritoso. Ma se non lo sei se ne accorgono financo i licenziati elementare. Perché lo scritto è li, su quel foglio immobile, che
sa quasi di eternità.

Se parli invece, devi confrontarti, come dice Carmelo Impera, con una “competenza emotiva” che puoi avere o acquisire, ma che puoi anche non avere e non essere in grado di acquisire.
Spesso i giornalisti televisivi, specie se incalzati dalla fretta, pongono la domanda e non ascoltano la risposta perché debbono pensare a cosa chiedere subito dopo: “Assessore, i suoi avversari dicono che lei ha interessi privati nell’appalto dei parcheggi, cosa risponde loro?” - “Gesummaria, non ne posso più. Ebbene si, lo confesso qui, davanti alla telecamera, per la prima volta! Poi mi costituisco. Ho percepito una tangente di 40.000 €!”. - "Bene, e intende quindi querelarli per averla diffamata?”.
Quando uno parla, però, si può permettere errori di grammatica, “imparpugliamenti” di lingua, afasiche deformazioni di parole e chi ascolta di solito quasi non se ne accorge. Il suono corre e svanisce. E’ una sfida ai nostri neuroni e alle nostre sinapsi. Fa a chi è più veloce e spesso vince. Se poi, però, con una moviola in mano ad allenati specialisti, rivediamo o risentiamo la registrazione, “Strisciia" campa un secolo a spese di Luca Giurato.

Il fatto è che in un’Italia dove si fanno corsi su tutto, non se ne fa uno che insegni ai giornalisti televisivi a non usare cento parole per dire ciò che potrebbe essere detto in dieci.
E siccome mi hanno insegnato che i più bravi sono non quelli che scrivono di più, ma quelli che “tagliano” di più, il pezzo su carta pone vantaggi indiscutibili.

Da nino tilotta, per stanotte è tutto. A voi studio.

Vincenzo Di Stefano ha detto...

Caro Nino (Tilotta),
c'è molta, molta verità in ciò che scrivi.
Riguardo quanto afferma, invece, Antonio, ritengo che parlare non sia affatto più difficile che scrivere, anzi...
Uno dei processi che "inquinano" maggiormente la scrittura è proprio il ricorso eccessivo (pervasivo, a volte insopportabile) ad espressioni tipiche della lingua parlata. Non credo neppure che i giornalisti siano in via di estinzione: stanno lì a testimoniarlo le cifre degli iscritti all'Ordine, in costante aumento. Se poi si tratta di «hobbysti» o di «giornalisti della domenica» questo è altro discorso...