09 gennaio 2008

Il Caso Contrada: la vicenda umana e quella giudiziaria tra odio, vendetta e memoria

Quella di Bruno Contrada è una vicenda umana ancor prima che giudiziaria. Ed è forse da qui, da questa elementare premessa, che si dovrebbe partire per comprendere come ciò che sta accadendo all’ex Dirigente della Polizia di Stato, prescindendo dunque dal merito delle vicende processuali e dal giudicato della sentenza, è certamente una forma di inaudito accanimento che lascia quanto meno perplessi.
Le gravi condizioni di salute, acclarate da diverse e motivate certificazioni sanitarie, ne fanno – mi si perdoni il crudo linguaggio – un moribondo. La permanenza in carcere – dicono le perizie – è non solo incompatibile con le sue condizioni di salute, ma le aggraverebbe. La legge contempla il differimento dell’esecuzione della pena, ma il magistrato competente – ed è notizia di poche ore fa - ha già respinto una specifica richiesta del legale di Contrada, l’avvocato Giuseppe Lipera.
L’impressione che se ne ricava, ancora con maggiore evidenza – nell’attesa comunque di leggere le motivazioni a supporto di questo sorprendente diniego - è di una sfida «al di sopra» dello stesso imputato, in cui il problema da capire e risolvere non sono le sue condizioni di salute, ma ciò che rappresenta Contrada nell’immaginario collettivo: un colluso e un traditore dello Stato.
Il moribondo, dunque, rimane in carcere, subendo, nei fatti, la condanna ad una lenta agonia. E poco importa se «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità». Almeno così sta scritto, con disarmante semplicità, all’articolo 27 della nostra Costituzione, indipendentemente, va da sé, dal reato per il quale si è stati condannati.
Lo Stato mostra così di sé un’immagine di crudele indifferenza, di meccanica fatalità, sottraendo non solo al buon senso ma ai più elementari principi di civiltà giuridica, la facoltà di togliere la vita.
Ed inquieta che questa fatalità possa essere formalmente sostenuta con il supporto del diritto e delle macchinose malleabilità che, del diritto, è possibile fare anche per dimostrare la «giustezza» di una detenzione che per alcuni tiene dietro le sbarre un «simbolo», e in realtà ha messo ai «ferri» un corpo malato.

Quella di Contrada però è anche una vicenda politica.
Le polemiche imbastite sulla finta richiesta di grazia (Contrada non l’ha mai chiesta) hanno trasformato la valutazione sul differimento della pena in un referendum sulla colpevolezza o meno dell’ex agente del Sisde. In pratica, un secondo processo, una seconda sentenza di condanna.
Giornali e televisioni, molti per pigrizia professionale, alcuni per pilatesco distacco, altri per un meditato calcolo di propaganda, hanno poi trasformato un semplice problema di umanità – e cioè le condizioni di salute di Contrada - in un dilemma: è giusto graziare un condannato per concorso esterno in associazione mafiosa ? E’ giusta tanta «attenzione» per un condannato per reati di mafia ?
Un epilogo prevedibile. In cui tanto sperava la vociante orda di becchini che sembra inseguire Contrada, confidando perfidamente - in un Paese come il nostro in cui il pensiero dell’opinione pubblica, storicamente, passa dal bianco al nero ignorando i toni di grigio – in una poderosa indignazione per indurre la «gente» a dividersi, fatalmente, tra mafia ed antimafia, il male ed il bene. Roba da novelli «ghigliottinatori» la cui lama affilata – peggio dei colpi di lupara - è quella delle invettive, dei risentimenti, dell’odio, dell’ansia di vendetta. La stessa vendetta inseguita come «piacere abietto di una mente abietta» (Giovenale)
E così, per l’ennesima volta, di fronte ad una classe politica diffusamente codarda e opportunista, incapace di sottrarre alla barbarie dei forcaioli il caso umano di un condannato, ancora una volta, all’ombra delle nostre Istituzioni, certa antimafia di mestiere - tale perché perpetua se stessa, nei ruoli politici come in quelli professionali, grazie al clamore (e al «ruolo») che l’antimafia offre nella ribalta mediatica promuovendo carriere e fortune politiche con una formidabile infallibilità che vince plateali inettitudini e notorie mediocrità – in poche ore, nel rituale turbinìo di dichiarazioni e prese di posizione, ha trasformato la vicenda umana in un nuovo processo, un giudizio di massa, una lapidazione collettiva, quasi che, decidere se fare scontare o meno a Contrada la pena in carcere o agli arresti domiciliari, significasse assolverlo o, come pure è stato sostenuto, fare un favore alla mafia.

Le condizioni di salute di Contrada devono essere disgiunte dalla sentenza di condanna. Per comprenderlo non si deve invocare lo Stato di diritto, né la pietà dell’opinione pubblica, ma solo il senso di umanità che pure è contemplato nei dettami della nostra Carta costituzionale. La civiltà di una società si misura anche in momenti come questi.
Qui invece si mischiano, volutamente, odio, vendetta e memoria. Si confonde, deliberatamente, la vicenda umana con quella giudiziaria. Alimentando spropositati furori verbali e perenni divisioni istigate non da una divergenza sull’analisi di merito, ma per autopromuoversi, per esserci, profittando dunque dei moribondi per rafforzare un ruolo, un potere, una nicchia di visibilità nella quale tutti dicono tutto perché è la guerra dei «simboli» e non il caso umano di un imputato. Mostrando un’invadenza sconsiderata, a tal punto - e la parola non deve apparire niente affatto esagerata - da intimidire il Capo dello Stato, il solo, nonostante i deliranti richiami e gli invocati colloqui, che ha il potere di concedere la grazia e commutare le pene.

Proprio in queste ore la Corte di Cassazione ha reso note le motivazioni della condanna. Contro l’ex uomo dei Servizi non ci sarebbe stato alcun complotto. Parole inequivocabili e - tranne che non arrivi una revisione del processo la cui richiesta è stata annunciata dal suo legale - probabilmente definitive. Eppure, a leggere le carte processuali, il dubbio è un tarlo che, in più circostanze, sfida la perentorietà dell’accusa.
Basterebbe, a dire il vero, pensare solo un momento alla sentenza d’appello che, dopo la prima di condanna, ha assolto Contrada «per insussistenza del fatto», per capire come in questa storia non c’è il «nero» da opporre al «bianco», ma tante sfumature di grigio.
Come fanno dei giudici a dire che Contrada è innocente ed altri che è colpevole ?
Tanta arbitraria è l’interpretazione del diritto ?
Tanto malleabile può risultare la sorte di un uomo posto innanzi alla mutabilità di umori, testimonianze, teoremi e pentiti, tale da farlo passare, con un tratto di penna, dal girone dei puri a quello dei collusi ?
Certamente si rimane disorientati nel constatare come un uomo delle Istituzioni sia stato giudicato da altri uomini dello Stato ora colluso ora integerrimo poliziotto.
La sua storia sembra il canovaccio dei «mascariati», dei sospettati.
E in una terra dove l’integralismo giustizialista, quello del «sospetto come anticamera delle verità» (infausto «assioma» partorito, a dispetto delle propagandate grigie «primavere», in tempi bui da Padre Ennio Pintacuda negli anni del suo obnubilamento orlandiano…) arma le fionde di quell’antimafia di mestiere che s’è fatta partito e potere consolidato, basta il «puzzo» dell’ambiguità, di un’incertezza, di un sospetto, per decretare la morte civile di una persona.

Non si può non condividere quanto ha detto l’ex Direttore dell’Unità Peppino Calderola, che ha bollato la canèa giustizialista nei confronti di Contrada come frutto di una «cultura vendicativa e priva di umanità».
E non si può ignorare il monito di un autorevole esponente del riformismo italiano, Emanuele Macaluso quando biasima quanti pensano di combattere la mafia «non con la fermezza dei principi e dell’azione pubblica, ma con la crudeltà statale»
«Giustizia senza misericordia – scriveva Albert Camus - non è molto distante dalla disumanità».
Ma certi magistrati, si sa, rilasciano interviste, frequentano gli studi televisivi, scrivono tanto, ma leggono poco.

Nino Ippolito


Nell’immagine in alto «Le muse inquietanti» (1917) di Giorgio De Chirico (Volos, 10 luglio 1888 – Roma, 20 novembre 1978)

3 commenti:

jana cardinale ha detto...

Caro Nino, intanto grazie per aver proposto e affrontato con tanta attenzione un argomento così imponente ed attuale come quello della vicenda umana e politica di Bruno Contrada...Un argomento che secondo me dovrebbe scatenare reazioni a catena, reazioni ragionevoli, per carità, non soltanto emotive, ma in ogni caso coinvolgere senza tregua chiunque abbia una coscienza vigile, e a cuore sia la verità dei fatti che la certezza dell' "applicazione" di un'umanità che non può essere appannaggio di alcuni e spesso invece miraggio per altri. Io chiedo la certezza dell'umanità...altri invocano la certezza della pena...Magari le due cose non sono in contrapposizione. Su Contrada ci sarebbe tanto da dire, tanto è stato detto e scritto, tanto interpretato... ed altri siti ed altri blog ne hanno fatto argomento di discussione continua. Io chiedo a tutti quelli che ci leggeranno semplicemente di andare a consultare il sito dell'ex numero 3 del Sisde, www.brunocontrada.info, dove potersi documentare in maniera scientifica ed inequivocabile, scevri da pregiudizi, ansia da giustizialisti e foga da forcaioli. Credo che il valore dell'Antimafia, delle battaglie in suo nome condotte ed apprezzate, e della forza che queste devono continuare ad alimentare, sia uno slancio forte e indomito che ci accomuna tutti, e su cui nessuno voglia dissentire. Ma credo che non volersi fermare di fronte a una sentenza, sia pur definitiva e quindi, da rispettare, che scaturisce da un processo le cui ombre sono state più volte evidenziate in maniera energica da più parti, sia un diritto che non si può negare in un paese che vanta e che dimostra civiltà schierandosi dalla parte della moratoria sulla pena di morte. Ma nel quale, tuttavia, può capitare che un detenuto, ammalato e anziano, venga sottoposto a degli esami clinici in balìa delle manette...Mi chiedo cosa c'entri questo con la giustizia...e cosa c'entri con la giustizia il voler a tutti i costi "spaventare" l'opinione pubblica avanzando l'insinuazione che un atto di clemenza, uno qualsiasi, se attuato per Contrada allora potrebbe presto essere attuato anche per Riina e soci...Celando volutamente una differenza che è e rimane abissale. O forse no? Da qualche parte ho letto che "per i nemici la legge va applicata, per gli amici interpretata"...A me viene una profonda tristezza.

Vincenzo Di Stefano ha detto...

«Le condizioni di salute di Contrada - nota Nino Ippolito - devono essere disgiunte dalla sentenza di condanna». Già, semplice, semplicissimo, non vi pare? Perché qui non importa se l'ex dirigente del Sisde è colpevole oppure innocente.
Sintetizzando: c'è un uomo di 75 anni, gravemente malato, che ha scontato in galera un terzo (o poco meno) della pena a cui è stato condannato, il quale chiede di poter morire a casa sua. Sarebbe atto di umanità concederglielo.

Anonimo ha detto...

Credo che Contrada sia vittima di un'epoca. Un'epoca nella quale è più giusto condannare gli amici che i nemici, un'epoca nella quale è meglio credere alle parole di pentiti, mafiosi, galeotti, criminali piuttosto che a quella di poliziotti, gentiluomini, gente per bene, lavoratori onesti che essendo stati smentiti da criminali incalliti a quest'ora si stanno domandando a cosa sia servito condurre una vita in rettitudine.
Non conosco il dott. Contrada di persona, ma so che è stato uno dei poliziotti più temuti in 30 anni di carriera. E' curioso che ad accusarlo maggiormente sono quegli stessi personaggi che lui contribui ad assicurare alle patrie galere. Una sorta di rivincita assecondata da sentenze quantomeno discutibili.
Sofri ha avuto il differimento della pena, Bompressi addirittura graziato dopo aver sparato ad un uomo.
L'ex poliziotto del SISDE lasciato morire in cella.
"Dott. Contrada le conveniva commetterli davvero quei reati."