Il giornalismo viene definito, non a torto, il «Quarto Potere» perché al pari di quello legislativo, esecutivo e giudiziario, è in grado di determinare dei cambiamenti nella società, nelle sue strutture sociali, politiche ed economiche.
Cosa succede quando «Quarto Potere» e «Potere Giudiziario» - per usare una esemplificazione - si fondono, agiscono in sintonia e si supportano vicendevolmente ?
La domanda è anche una premessa per meglio specificare il senso del nuovo tema che voglio introdurre, e cioè il rapporto tra accusa e difesa nel giornalismo giudiziario. Tema che costituisce spesso oggetto di dibattito non solo tra gli addetti ai lavori (giornalisti, avvocati, magistrati) ma anche tra i normali cittadini.
Penso di sottolineare una ovvietà se scrivo che questo rapporto è sbilanciato a favore dell’accusa e di come, quindi, sia sostanzialmente degenerato, apparendo il giornalismo giudiziario italiano prono alle procure e agli organi investigativi. Ancor più negli ultimi anni, con la progressiva scomparsa del giornalismo d’inchiesta che ha sottratto ai giornalisti quella capacità di analisi, di verifica, di ricerca e di riscontro che solo un lavoro meticoloso, paziente, scrupoloso può assicurare.
«Sbattere il mostro in prima pagina» è forse la frase che – seppur banalmente - meglio sintetizza la subordinazione del giornalismo giudiziario all’accusa. Ma è , in generale, il vizio tipico del giornalismo pigro: sposare una tesi, trasformare indizi in prova, indicare un colpevole, trasformare le indagini preliminari in condanna, attribuire connotati di «verità fattuale» a ciò che un giudice deve ancora vagliare, giudicare.
Molti giornalisti, sia che scrivano per quotidiani regionali sia che lo facciano per quelli a diffusione nazionale, si sono ridotti a fedeli «portavoce» delle procure e quindi della pubblica accusa.
Non si raccontano i fatti, si preferisce «sposarli»; quelli, ovviamente, già confezionati in una predeterminata prospettazione che, rappresentando solo una parte, non potrà essere in quel momento – e dunque prima di una sentenza – la verità.
Non si va mai oltre l’ufficialità delle fonti investigative. Anzi, spesso si prendono per buone acriticamente, quasi godessero di una sorta di immunità allo scrupolo, alla verifica, al riscontro, mentre le cronache di questi mesi ci dicono che anche le indagini si possono deviare, pilotare, indirizzare o rivoltare come un calzino con esiti diversi. O che anche le indagini possono essere viziate da errori, imperizia, malafede, travisamenti, equivoci.
«Il dubbio è scomodo – diceva Voltaire - ma solo gli imbecilli non ne hanno»
I cronisti giudiziari si limitano spesso ad un lavoro da copisti, riprendendo dettagliati comunicati stampa pensati a bella posta per «il giornalismo del copia e incolla», e si abdica persino al ruolo di semplici cronisti perché non è il «fatto» che si racconta, ma le sue suggestioni o la rappresentazione che del fatto viene fornita.
La difesa è ridotta ad orpello formale. E per giunta invisa alla categoria perché per avere «udienza» in fondo pagina o - bene che vada - in uno stelloncino di spalla, deve farsi spazio a colpi di diffide.
Non deve sorprendere allora se l’opinione pubblica si dica «stupita» ogni qual volta apprende di «clamorose assoluzioni», ignorando come la stessa opinione pubblica abbia il più delle volte conosciuto sui giornali solo le prospettazioni dell’accusa e mai gli argomenti della difesa. E’ come se per un anno i giornali scrivessero che Tizio è un truffatore della peggiore risma e poi un Giudice, a fine processo, ci dice che in realtà è uno stinco di santo.
In un sistema così sbilanciato il rapporto tra giornalisti e fonti investigative (Carabinieri, Polizia, Magistrati, Guardia di Finanza) si nutre spesso di compiacenze e – purtroppo - anche di condizionamenti più o meno consapevoli.
Si assiste, non di rado, a plateali baratti: il dettaglio di una inchiesta, una rivelazione investigativa o un segreto ammantato di «indiscrezione» in cambio di visibilità mediatiche, di risalto a tesi accusatorie con effetti dirompenti nell’opinione pubblica per cui un processo prima che nelle aule dei tribunali viene celebrato sui giornali. E’ una regola non scritta. E’ una prassi elevata a sistema. Non c’è, solitamente, una strategia studiata a tavolino. E’ un andazzo «naturale».
Ciò non toglie che ci sia anche la teatralità cercata, studiata. Accade quando occorre suscitare clamore. Quasi che l’esito di un’indagine si esaurisca nello spettacolo mediatico di una retata in diretta e non – come giusto che sia – in un processo, e cioè in un confronto tra accusa e difesa. Basti pensare alle «fiction» che accompagnano certe inchieste: la «soffiata» alle televisioni, le troupe al seguito delle «gazzelle», militari in posa, ciak, si gira.
Perchè questo accade ?
Il rapporto tra accusa e difesa, al di là delle modifiche all’articolo 111 della nostra Costituzione, rimane sbilanciato a favore della prima già nel processo. E’ una constatazione acclarata da insigni giuristi. Il giornalismo giudiziario, per pigrizia e per compiacenza, riflette questo sbilanciamento.
Nel mezzo intravedo motivi, diciamo così, più elementari C’è un problema di conoscenza, di formazione, di cultura giuridica. Non sempre chi si occupa di cronaca giudiziaria ha gli strumenti per comprendere le indagini, il loro iter, il processo.
Si ritiene, a torto, che l’esperienza possa colmare il vuoto di conoscenza. Ma non è così e non potrebbe essere altrimenti nel giornalismo giudiziario dove il trattamento della «materia» presuppone una conoscenza dettagliata di codici e procedure.
Non di rado - per segnalare le situazioni più evidenti - leggiamo di pubblici ministeri indicati come «giudici», ignorando, in questo caso, la distinzione tra magistratura requirente e quella giudicante; o di «avvisi di garanzia» associati ormai con naturale ritualità ad un’idea di «colpevolezza», dove la sola garanzia - come ricordava pochi giorni fa sulle colonne del «Corriere della Sera» il magistrato Felice Casson commentando l’indagine a carico del ministro di Grazia e Giustizia Clemente Mastella – è che «l’avviso è un guaio per l' indagato e non un atto a sua tutela».
Ci sono, nel mezzo, i casi di vera e propria subordinazione psicologica. Di giornalisti cioè, così succubi e per questo così «malleabili», che instaurano con magistrati, carabinieri, commissari, un rapporto professionale di sudditanza. Parlo di giornalisti che scalpitano per una cena con un Pm, che inseguono un rapporto privilegiato, e che pure ricercano in questa confidenza una sorta di accreditamento, un riconoscimento di ruolo che, al contrario, l’esercizio concreto dell’indipendenza e dell’autonomia professionale, non consentirebbe loro di avere. Di solito accade ai mediocri, e cioè a quelli che - per scelta di «devozione» - non proverebbero mai, pur avendone le ragioni, a criticare un Pm, un maresciallo dei Carabinieri, un Commissario di Polizia. A dubitare, per ipotesi, anche del loro lavoro.
Vero è che non sempre la «difesa» è incline a difendersi anche sui giornali, ma questo atteggiamento nasce proprio dalla consapevolezza che, lo sbilanciamento sui giornali tra accusa e difesa, è una lotta impari. Tanto è radicata la distorsione.
Ciò che preoccupa – e concludo - non è lo stato delle cose, quanto l’incapacità della categoria di prendere coscienza del problema e affrontarlo adeguatamente.
Garantire la parità tra accusa e difesa anche sui giornali significa garantire il contraddittorio.
La garanzia del contraddittorio è il principio cardine di un giornalismo che, oltre che imparziale, aspira ad essere veramente autorevole e per questo credibile.
Saluti
Nino Ippolito
Nella foto a corredo del post una tela del pittore francese Louis-Simon Tiersonnier dal titolo «Allegoria della Giustizia»
(Beauvais 1713 o 1718 - Parigi 1773)